Emil Cioran pubblica "Sommario di Decomposizione" nel 1949, 16 anni dopo il suo "Al Culmine della Disperazione", ormai raggiunti i 38 anni, sopravissuto a 2 guerre mondiali, trasferitosi in Francia con tutta la sua difficoltà dell'essere umano. Nato in Romania, Cioran scrive questo libro in francese, il che causa forse una non facile traduzione dei suoi pensieri e una composizione delle frasi e dei concetti che in alcuni punti mi sembrano più gravi da leggere rispetto al precedente. O forse, è semplicemente la sua evoluzione e la sua vecchiaia.
In ogni caso, Emil Cioran si riconferma un attento osservatore, o meglio, un attento riflettore (?) degli uomini attraverso sè stesso. Arrivato quasi a 40 anni, la sua consapevolezza di essere tra pochi lo rende ancora più freddo, in qualche modo più rassegnato, ma con la forza di continuare data dal segreto della vita, dalla capacità immanente in ogni persona, di poterne uscirne in ogni momento.
La tristezza delle parole di Cioran arriva dall'esterno, nella difficoltà di vedere uomini che non raggiungono la sua cognizione del tutto, dal tempo che passa confermando in ogni istante il proprio parere. Insomma, una raccolta dei suoi pensieri che lo hanno portato ad allontanarsi dalla mediocrità, sprofondando in qualcosa di cui non tutti comprendono la gravità.
Potete facilmente recuperare "Sommario di Decomposizione" in prestito dalla vostra biblioteca di fiducia, qui sotto citazioni varie, per capire meglio cosa ha scritto Cioran in questo libro (perchè come al solito ogni descrizione o recensione non ha senso). Buona lettura!
Un tempo avevo un "io"; ormai sono soltanto un oggetto.. Mi imbottisco di tutte le droghe della solitudine; quelle del mondo erano troppo leggere per farmelo dimenticare.
La frivolezza è quindi l'antidoto più efficace al male di essere ciò che si è: grazie a essa noi inganniamo la gente e dissimuliamo la sconvenienza delle nostre profondità. Senza i suoi artifici, come non vergognarsi di avere un'anima? Le nostre solitudini a fior di pelle: quale inferno per gli altri! Ma è sempre per gli altri, e talvolta per noi stessi, che inventiamo le nostre apparenze.
Ognuno di noi è nato con una dose di purezza predestinata a essere corrotta dal commercio con gli uomini, da questo peccato contro la solitudine. Giacchè ognuno di noi fa l'impossibile per non essere votato a sè stesso. Il nostro simile non è fatalità, bensì tentazione di decadimento.
Dopo ogni conversazione, la cui raffinatezza indica da sola il livello di una civiltà, perchè mai è impossibile non rimpiangere il sahara e non invidiare le piante o i monologhi infiniti della zoologia?
E questo nonnulla, questo tutto non può dare un senso alla vita, ma la fa nondimeno perseverare in ciò che essa è: uno stato di non suicidio.
Se i pomeriggi domenicali si protrassero per mesi, dove andrebbe a finire l'umanità, emancipata dal sudore, libera dal peso della prima maledizione? L'esperimento varrebbe la pena di esser fatto.
Gli sfaccendati afferrano più cose e sono più profondi degli indaffarati: nessun compito limita il loro orizzonte; nati in un'eterna domenica, essi guardano - e si guardano guardare.
Nelle farmacie non vi è alcun rimedio contro l'esistenza, solo palliativi per i fanfaroni. Ma dov'è l'antidoto alla disperazione chiara, infinitamente articolata, fiera e sicura? Tutti gli essere sono infelici; ma quanti lo sanno?
I ceppi e l'aria irrespirabile di questo mondo ci tolgono tutto, tranne la libertà di ucciderci; e questa libertà ci infonde una forza e un orgoglio tali da trionfare sui pesi che ci opprimono. Poter disporre totalmente di se stessi e rifiutarsi di farlo: c'è forse un dono più misterioso?
Ieri, oggi, domani, sono categorie a uso dei servi. Per l'ozioso insediato sontuosamente nella Sconsolatezza e afflitto da ogni istante che scorre, passato, presente e futuro non sono altro che parvenze variabili di uno stesso male, identico nella sostanza, inesorabile nel suo insinuarsi e monotono nel suo persistere.
Se tutti coloro che abbiamo ucciso col pensiero scomparissero davvero, la terra non avrebbe più abitanti.
Libero da tutti i pregiudizi, egli diventa l'uomo inutilizzabile per eccellenza, a cui nessuno si appella e che nessuno teme, perchè egli ammette e ripudia ogni cosa con lo stesso distacco.
Chi non ha rimpiato, dopo essere stato ricevuto da un ricco, di non poter disporre di oceani di saliva per riversarli su tutti i possidenti della terra?
Inchiodati a noi stessi, non abbiamo più la facoltà di deviare dal cammino iscritto nell'innatismo della nostra disperazione. Farci esentare dalla vita perchè essa non è il nostro elemento? Nessuno rilascia certificati di inesistenza.
Ho conosciuto la metafisica postsessuale, il vuoto dell'universo creato invano, e questa dissipazione di sudore che vi immerge in un freddo immemoriale, anteriore ai furori della materia. E ho voluto essere fedele al mio sapere, costringere gli istinti ad assopirsi, e ho constatato che non serve a niente maneggiare le armi del nulla se non si possono rivolgere contro sè stessi.
L'avventura umana avrà sicuramente un termine, che si può immaginare senza esserne contemporanei. Quando in sè stessi si è consumato il divorzio dalla storia, diventa del tutto superfluo assistere alla sua fine. Basta guardare l'uomo in faccia per distaccarsene e non rimpiangere più le sue frodi.
All'essere non consenziente, che sta al di qua o al di là della città, e a cui ripugna intervenire nel corso dei grandi o dei piccoli avvenimenti, tutti i modi di vita in comune sembrano egualmente spregevoli. [...] Chi è vissuto tra gli uomini, e spera ancora in un solo evento inatteso, non ha capito e non capirà mai nulla.
Nell'evoluzione dell'universo, non c'è fenomeno più importante di questa possibilità a noi riservata di convertire tutti gli oggetti in pretesti, di scherzare con le nostre mete ultime, di mettere sullo stesso piano, grazie alla divinità del capriccio, un dio e una scopa.
Accetto la vita per urbanità: la rivolta perpetua è di cattivo gusto quanto la sublimità del suicidio. A vent'anni ci si scaglia contro il cielo e il lerciume che esso scopre; poi ci si stanca. La posa tragica si addice soltanto a una pubertà protratta e ridicola; ma occorrono mille prove per accedere all'istronomismo del distacco.
Provate a essere liberi: morirete di fame. La società di tollera soltanto a patto che siate successivamente servili e dispotici; è una prigione senza guardiani, ma dalla quale non si evade senza perire.
Pensate a un qualsiasi essere umano che abbia attratto la vostra attenzione o suscitato la vostra passione: nel suo meccanismo qualcosa si è guastato a suo vantaggio. Noi disprezziamo giustamente coloro che non hanno mai messo a profitto i loro difetti, che non hanno sfruttato le loro carenze e non si sono arricchiti delle loro perdite, così come disprezziamo ogni uomo che non soffra di essere uomo o semplicemente essere.
L'errore di coloro che colgono la decadenza è di volerla combattere, mentre bisognerebbe incoraggiarla: sviluppandosi, essa si esaurisce e permette l'avvento di altre forme. Il vero annunziatore non è colui che propone un sistema quando nessuno lo vuole, ma colui che precipita nel caos, ne è l'agente e il turiferario.
[...] dobbiamo concludere che tutti gli uomini spariranno dalla terra? Non bisogna essere tanto ottimisti. Una buona parte, i sopravvissuti, continueranno a trascinarvisi, razza di sottouomini, scrocconi dell'apocalisse.
Colui che, avendo consumato i propri appetiti, si avvicina a una forma limite di distacco, non vuole più perpetuare se stesso; detesta sopravvivere in un altro, al quale d'altronde non avrebbe più niente da trasmettere; la specie lo sgomenta: è un mostro e i mostri non generano più. L'amore continua ad affascinarlo: un'aberrazione in mezzo ai suoi pensieri. Egli vi cerca un pretesto per ritornare alla condizione comune, ma il figlio gli sembra inconcepibile, comela famiglia, come l'eredità, come le leggi della natura.
Per quale motivo ogni generazione non dovrebbe imparare un nuovo idioma, non fosse che per dare una nuova linfa agli oggetti? Come è possibile amare, odiare, divertirsi e soffrire usando simboli anemici?
Il fatto che un uomo sopravvivesse alla propria passione bastava a rendermelo spregevole o abietto: come dire che ritenevo superflua l'intera umanità, giacchè scoprivo in essa un numero infimo di grandi decisioni e un tale compiacimento nell'invecchiare che io me ne distoglievo, risoluto a farla finita prima di arrivare alla trentina. Ma a mano a mano che gli anni passavano, perdevo l'orgoglio della giovinezza: ogni giorno, come una lezione di umiltà, mi ricordava che ero ancora vivo, che tradivo i miei sogni fra gli uomini putrefatti di vita. [...] ancora oggi stimo di più un portinaio che si impicca di un poeta vivo.
La società non è un male, è un disastro: quale stupido miracolo che ci si possa vivere! Quando la si osserva, tra la rabbia e l'indifferenza, diventa inspiegabile che nessuno abbia potuto demolirne l'edificio, che non ci siano state fino a oggi persone abbastanza perbene, disperate e dignitose, da raderla al suolo e cancellarne le tracce.
Mi ha ricordato l'immagine della bomba al centro della terra della Coscienza di Zeno.
RispondiEliminaPeriodaccio: sono pefettamente d'accordo con loro e su tutta la linea.
La differenza in Cioran è che in lui la consapevolezza della sua ragione rispetto al mondo è immediata e spontanea, per questo ancora più melancolica... non si può che essere d'accordo, e alla fine proprio per questo, raggiungere una tranquillità totale nel sapere che fortunatamente non siamo immortali, quindi ogni problema non esiste in fondo. Essere Umani è vivere sempre in un periodaccio, all'incirca ;P
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